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Cara Ursula, non commettere il solito errore con Big Tech

C’è un riflesso condizionato nella politica europea che, ogni volta che gli Stati Uniti alzano i toni sul commercio, ci spinge a rispondere con la stessa moneta. Un dazio chiama un contro-dazio, una stretta fiscale chiama una rappresaglia regolatoria. Ma non tutte le monete hanno lo stesso peso, e soprattutto non tutte le battaglie si combattono sullo stesso terreno.

Quando Donald Trump impone dazi su prodotti europei, come il parmigiano italiano, lo fa per sostenere l’alternativa interna, magari il “parmesan” californiano. Una scelta rozza, forse, ma strategicamente coerente: protegge una filiera nazionale, rafforza la produzione interna e alimenta un consenso politico basato sull’“America First”. Anche se il risultato è un prodotto peggiore sul mercato, la logica è quella dell’autosufficienza.

L’Europa, invece, rischia di rispondere in modo speculare, ma senza alcun beneficio. Minacciare o applicare tasse specifiche contro le Big Tech americane, come Google, Apple, Meta, Amazon o Microsoft, può sembrare una reazione forte e simbolicamente giusta. Ma è un gioco a perdere. Non solo perché non abbiamo un nostro Google o un nostro Amazon da difendere, e quindi non c’è alcun tessuto industriale da proteggere, ma anche perché dipendiamo strutturalmente da quelle infrastrutture digitali.

Applicare dazi o imposte punitive contro le grandi piattaforme americane non crea posti di lavoro in Europa. Non rafforza il nostro ecosistema tecnologico. Non ci rende più competitivi nel settore digitale. È una ritorsione sterile, che rischia solo di aumentare i costi per le imprese e i cittadini europei, senza costruire alcuna alternativa concreta.

Il vero squilibrio, semmai, è altrove. Gli Stati Uniti non solo dominano il mercato delle piattaforme digitali, ma hanno anche assunto il controllo quasi esclusivo del futuro della tecnologia, attraverso l’intelligenza artificiale. I modelli linguistici, le reti neurali di ultima generazione, le startup e i capitali che le finanziano, tutto si muove da lì, dalla Silicon Valley o dai suoi satelliti sparsi tra Seattle, Austin e Boston. L’Europa, invece, balbetta.

Se vogliamo davvero rispondere con forza e visione, cara presidente von der Leyen, non ci servono vendette fiscali, ma politiche industriali coraggiose. Serve un piano per favorire la nascita di veri poli digitali europei, con finanziamenti pubblici e privati, libertà sperimentale per le imprese, e un’alleanza intelligente tra regolazione e innovazione. Serve attrarre talenti, formare nuove generazioni e non affogare ogni progetto in una palude burocratica.

Le guerre tecnologiche non si vincono tassando il nemico, ma creando qualcosa di meglio. E questo, l’Europa, può ancora farlo. Ma solo se smette di rispondere col pilota automatico.