C’è un dettaglio curioso, quasi ironico, che emerge con prepotenza se si osservano le fotografie degli eventi dedicati all’intelligenza artificiale: una distesa di capelli grigi, stempiature evidenti, volti gentili ma segnati dal tempo. La media visiva di questi convegni, corsi e workshop racconta più di quanto non dicano i titoli degli interventi. L’AI pare diventata il passatempo preferito di chi ha attraversato il millennio in modalità analogica e si è ritrovato, a sorpresa, in pieno uragano digitale.
Non si vedono ventenni. I membri della Generazione Z – e ancor meno quelli della generazione successiva, che a stento ha ancora un nome riconosciuto – sembrano ignorare completamente questi spazi. Né partecipano fisicamente, né riempiono le timeline con contenuti che ne segnalino la presenza.
Anche su Instagram, territorio già più familiare per le fasce giovani, il panorama non cambia. Le statistiche parlano chiaro: i contenuti relativi all’intelligenza artificiale, per quanto aggiornati, stimolanti e ben curati, faticano ad attrarre l’attenzione delle nuove generazioni. Troppo lunghi, troppo tecnici, troppo seriosi. L’algoritmo non li premia. Gli utenti li ignorano.
A scuola, intanto, qualcosa si muove. Si inizia a parlarne, timidamente, tra un’ora di tecnologia e un progetto interdisciplinare. Ma a dirla tutta, in una realtà scolastica dove ancora si tracciano prospettive con squadrette e compassi, dove i software CAD restano confinati a laboratori specializzati e i modelli 2D/3D sono più argomento da corso pomeridiano che materia ordinaria, c’è ben poca speranza di vedere l’intelligenza artificiale trattata come disciplina. Al massimo, viene usata come supporto da professori esausti per alleggerire la mole di lavoro, non certo come strumento per formare nuove menti critiche.
Eppure ci sarebbe un disperato bisogno dei loro giovani cervelli. Per quanto le generazioni precedenti si sforzino di essere aperte, curiose e propositive, portano con sé preconcetti così profondi da risultare spesso invisibili. E proprio perché invisibili, sono difficili da mettere in discussione. Quei limiti di fondo che derivano da un’educazione pre-digitale, da un’idea di sapere lineare e trasmissivo, continuano a influenzare ogni riflessione sull’AI, anche la più aggiornata.
E allora dove sono i ragazzi? Sui social che sentono davvero loro e non quelli zeppi di boomer.
TikTok, soprattutto. Forse anche su YouTube Shorts o Discord, dove i contenuti sono più rapidi, ritmati, privi di quella solennità da tavola rotonda accademica. Ma anche qui, la presenza dell’intelligenza artificiale assume spesso la forma di un gioco: video ironici, sketch creati con voci sintetiche, filtri surreali, imitazioni generate da modelli vocali. È AI, certo, ma disinnescata, scomposta, svuotata di peso informativo.
Come si entra in questo mondo senza sembrare un adulto fuori posto in una festa per adolescenti? Come si parla di argomenti complessi, come il ruolo trasformativo dell’AI nella scrittura, nell’arte, nella cultura, senza essere schiacciati da balletti, reaction, remix?
Forse il segreto non è tentare di “spiegare”, ma mostrare. Invece di dire cosa può fare l’intelligenza artificiale, usarla per creare forme narrative che parlino la lingua visiva e sonora di chi vive quei social. Non un reel di 60 secondi che racconta una novità, ma una storia in 60 secondi che emoziona, intriga, diverte, lasciando solo alla fine un accenno all’AI. Fare intrattenimento con contenuto, e non l’inverso.
Per ora, l’intelligenza artificiale è ancora nelle mani di adulti che, pur con tutta la buona volontà, faticano a cogliere la portata epocale di un cambiamento che già oggi sta riscrivendo le regole del lavoro digitale. E nel frattempo, ai ragazzi non vengono offerti gli strumenti giusti per affrontare ciò che li aspetta, in un paese che continua ad invecchiare e guarda al futuro con lenti del passato.